Avevo detto telefonicamente a qualche amico, ed in cuor mio l’ho sempre saputo, che uno dei momenti più complessi di questo periodo pazzesco che stiamo vivendo sarebbe stato proprio quello durante il quale la parvenza di una normalità ci sarebbe stata restituita.
Da ieri con questa fase due se è vero che ci sono ancora diverse limitazioni, d’altro canto si ha modo di poter compiere qualche azione più normale nonostante tutte le precauzioni che ovviamente dobbiamo rispettare.
Quando dicevo che, aspetto sanitario a parte, le difficoltà vere le avremmo viste solamente dopo la fine della quarantena, in realtà il mio pensiero era più che altro riferito a vicende di natura economica e confesso di non aver pensato o non aver dato il giusto peso ad un altro aspetto che invece proprio da due giorni a questa parte ho riconsiderato forse perché anche toccato personalmente per la sua pesantezza.
Mi riferisco agli aspetti psicologici che ciascuno di noi in un modo nell’altro si trova costretto ad affrontare ogni qualvolta si trova nella condizione di dover “tornare fuori”.
Mi spiego meglio: avrò detto non so quante volte che aspettavo questo 4 maggio o comunque la data indicata, per poter tornare a uscire e oggi che questa data è arrivata mi rendo conto che tutta questa voglia forse non ce l’ho.
A differenza di altri non ho la necessità di uscire, lavoro da casa, quello che per molti è stata una novità, lo smart working, per me è un’abitudine consolidata da anni. È però vero che in tanti momenti della giornata la mia quotidianità mi porta fuori non foss’altro, a titolo di esempio, per realizzare video e foto da pubblicare poi su queste pagine.
Ecco devo dirvi la verità: non mi va di farlo. Questa mattina per esempio avrò già cambiato idea 10 volte: vado, non vado, vado, non vado. E alla fine non sono andato.
Perché? Sono certo che si tratti squisitamente di un problema, se così possiamo definirlo, psicologico: da una parte l’abitudine ormai creatasi da due mesi di quarantena nello stare fermo, dall’altra l’incertezza non di quello che potrò trovare fuori (Milano è sempre uguale per fortuna) ma del tipo di socialità che dovrai affrontare.
E forse anche qui l’aspetto psicologico gioca un tiro mancino: l’idea di non potermi comportare con le persone che conosco come sempre fatto in un certo senso mi infastidisce o comunque mi crea fastidio; d’altro canto l’idea di entrare in contatto anche involontariamente con chi non conosco mi aumenta quella sensazione di ansia che difficilmente ricordo di aver avuto.
A conclusione di questo sfogo più personale che altro ritengo che ci sia molto da fare, in tutti sensi. Nel mio caso, credo che la cosa migliore sia la “terapia d’urto”. Sì, esatto, ecco quello che ci vuole. Mi preparo ed esco, in barba alle paturnie.
Va bè, magari domani.
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