mercoledì,27 Novembre,2024
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Missori, semafori e pavè. Una storica fermata

Missori: semafori, pavè sconnesso, un muricciolo di mattoni in mezzo alla strada, traffico, un cavallo affranto con cavaliere stupito abbandonati tra auto, moto e qualche bruttura di troppo: cosa c’è da vedere da queste parti?

Piazza Missori non è un angolo che possa invitare a fermarsi ed alzar la testa, che chiami a sé qualche scatto di fotografico omaggio: certo la situazione è migliorata (e non poco!) dopo i recenti lavori, ma confessiamo che questa piazza non ci entusiasma più di tanto.

Eppure questa piazza è uno scrigno di racconti, figli naturali di chi porta con sé molti anni, molte ferite divenute, con il tempo, acciacchi, così che la voce s’ è fatta flebile, impossibile da distinguere nella centrifuga contemporanea.

Proviamo qui ad amplificarla cercando di porre rimedio a quel quadro desolante ed anonimo che si offre a noi oggi, rivalutandone la Storia e rileggendone gli errori.
La realtà archeologica ci consegna la nostra piazza Missori abitata già a partire dal II secolo a.C. in cui, tra edifici in legno, cocci e metalli, emergono testimonianze dei primi contatti tra Celti e Romani.

Alla definitiva conquista romana segue il primo tracciato stradale, in luogo dei vecchi edifici celti, che sarà embrione dell’asse viario conosciuto oggi come Porta Romana.
Ma andiamo per gradi.

Prendete la Metro gialla e raggiungete la fermata Crocetta; un po’ lontana da piazza Missori, eppure il nostro riassunto parte da qui, fidatevi.
Prima che le moderne e malsane nebbie abbiano la meglio su di noi, portiamo indietro i nostri orologi di 2000 anni circa.

Missori, semafori e pavè. Una storica fermata

Ci troviamo su una strada lastricata che dalle porte di Mediolanum, già riconosciuta Municipium Civium Romanorum con le sue 25.000 anime, portava dritti a Roma.
Da qui, sono passati Cesare a conquistare la Gallia, Traiano e Adriano a difendere i confini, ma è Massimiano che ci porta oggi fino alla Crocetta.

Qui infatti fece erigere l’arco trionfale d’ingresso della famosa via porticata che accoglieva i visitatori provenienti da Roma, i più importanti, quali siamo noi oggi.
Imbocchiamo dunque da Crocetta, direzione centro, questa doppia infilata di colonne, vanto e lustro della Mediolanum capitale dell’impero d’occidente.

Camminiamo sui poligoni di pietra che già salutarono i soldati di Costantino vittoriosi, osservando curiosi gli enormi archi marmorei mentre sgomitiamo nella ressa coagulata alle botteghe dei mercatores, che qui trovano affari.
Li troveranno fino all’arrivo di Ambrogio e, con Lui, della basilica Apostolorum (San Nazaro).

Arriviamo all’innesto di via Paolo da Cannobbio, dove il nostro piccolo miracolo ci permette di apprezzare il passaggio del Seveso, in cui si riflette Porta Romana che ci invita ad obbedienza:

Dì o viandante che t’appresti a varcare la porta: ”Salve, seconda Roma, decoro imperiale del Regno; città molto veneranda e di dovizie onusta. Te le genti temono; a Te piegano il collo i potenti. Tu nella armi di Tebe, Tu nella saggezza vinci Atene”.

La varchiamo per entrare finalmente nella nostra piazza Missori, di cui ancora non c’è traccia se non nel traffico, poiché ci troviamo a percorre il decumano massimo, una strada lastricata larga 8 metri circa che prosegue tra portici e ville gentilizie e che, seguendola, ci condurrebbe direttamente al foro (piazza San Sepolcro).

Ne troviamo testimonianza nella porzione di lastricato, consumatissimo, visibile all’ingresso del metrò.
La nostra piazza era dunque la prima porzione di abitato che veniva offerta ai visitatori provenienti da Roma: non proprio un luogo qualsiasi!
Già tra il IV ed il V secolo, nell’area viene eretta una basilica, a navata unica absidata (una porzione del pavimento originale dell’epoca è esposto alla cripta di San Giovanni in Conca) mentre tutto intorno si allarga una necropoli, tutto di fondazione longobarda.

Tra le anime ospitate, c’era anche quella di Aldo, longobardo cognato di Teodolinda, privilegiato orecchio di una tra le ultime riunioni di popolo, i “parlamenti”, che riparavano all’ombra dei luoghi sacri almeno fino al 3 gennaio 1117 , quando lo sconvolgente terremoto dei 40 giorni consigliò gli spazi aperti (il prato, o brolo, a lato del palazzo arcivescovile).

Portando avanti i nostri orologi notiamo come la zona sembri rimanere pressoché invariata fino all’arrivo del Barbarossa che, nel 1162, di mura e porticato, farà definitivamente piazza pulita, infiammato forse dal rischio corso proprio ai piedi dell’arco trionfale, in crocetta, dove ai milanesi riuscì di disarcionarlo, ma non di completare l’opera.

La basilica, citata anche dal vescovo Ansperto nel IX venne ristrutturata una prima volta nel XI secolo, ricostruita dopo il passaggio del Barbarossa, infine nel XIII secolo, quando si doterà di un campanile di 24 metri ed assumerà le forme a noi più familiari.

La porta di accesso alla città si sposta qualche centinaio di metri più avanti, lungo l’asse di quella che era stata la via porticata, affacciandosi al canale che sarà poi il naviglio, mentre all’interno, si procede alla ricostruzione della città, che cambia forma.Cambia forma anche la nostra piazza, che devia il decumano massimo curvandolo in via Unione, asse viario che si conserverà tale fino al 1877.

Ben prima però, nel XIV secolo, l’area di piazza Missori torna a vestire di lusso. Diventa infatti residenza di Bernabò Visconti, che ristruttura il palazzo già appartenuto all’ odiato zio Luchino, a fianco alla chiesa, facendone sua residenza.
Trasformando l’intera zona in un fortilizio, la chiesa vi si trova in mezzo e Bernabò la accomoda a cappella ducale.

Tutto ciò per non esser da meno nei confronti dei fratelli, con cui divideva il ducato e la stessa Milano e da cui era meglio tutelarsi, soprattutto da Galeazzo II , domiciliato al broletto vecchio (due fratelli, due castelli, recita un antico detto) .

Dunque, arrivando dalla nuova Porta Romana, avremmo percorso nuovamente l’asse dell’antica via porticata, ora semplice strada, fiancheggiata da abitazioni e camminamenti che, costeggiati, costringerebbero a trovarci proprio di fronte all’odierno palazzo dell’INPS, non prima di aver passato il ponticello ed il Seveso, ancora al loro posto.

Sulla nostra destra si eleva il palazzo di Bernabò e proseguendo curviamo leggermente, insieme alla strada, verso via Unione. Dell’asse di corso Italia non vi sarà traccia ancora per molto. Avanziamo oltre la curva e sulla destra si apre il sagrato della chiesa, quasi nascosto però dall’ingombro militaresco del Visconti.

Guardando la chiesa, saldata alla sua destra avremmo apprezzato la residenza viscontea, la Cà di Can così chiamata poiché Bernabò vi teneva parte dei suoi 5.000 cani da caccia ed un vicoletto d’accesso, naturalmente chiuso e sorvegliato, mentre sul lato sinistro un palazzo che di li a poco sarebbe divenuto proprietà Sforza.
Tra i due edifici vediamo un vicolo fiancheggiare l’alto campanile inoltrandosi verso il Bottonuto, che prenderà nome di vicolo San Giovanni in Conca, non prima di esser intitolato ai Marchesi di Caravaggio.

Alla morte di Bernabò il nipote Gian Galeazzo, suo assassino, provvederà allo smantellamento del fortilizio dello zio, liberando in parte la chiesa dalla morsa militare ed aprendo finalmente un piccolo sagrato. A questo punto, entrando in chiesa avremmo visto l’arca funebre di Beatrice della Scala, moglie di Bernabò, accompagnare il monumento equestre del marito che campeggia alla destra dell’altare maggiore.

Lo sposterà da qui, per primo, San Carlo, che ne giudica la posizione come blasfema (per poi finire ai magazzini municipali due secoli dopo, mentre i resti della coppia vengono traslati “vicino a casa” in S. Alessandro, dove si trovano ancora oggi).

Nel 1663 vi arrivano i padri carmelitani, che ampliano leggermente il complesso ecclesiastico, ma senza modificare l’assetto dell’area che, già dal XVI° fino al XIX° secolo, s’incaricherà di radunare la folla diretta ai cortei carnevaleschi provenienti da via larga, di cui il nobile e lussuoso corso Porta Romana era scenografia, arrivando quasi inalterata al 1877.

Il salotto buono , quello delle passeggiate mondane, dall’ antico corso si è già trasferito a porta orientale. Sono anni di aria nuova in città, riplasmata con ripetuti sventramenti che interessano non poche aree, tra cui la millenaria Cordusio, piazza Mercanti , Duomo e la nostra piazza Missori.

Qui, per raccordare piazza Duomo al corso di Porta Romana, venne aperta via Mazzini (allora intitolata a Carlo Alberto di Savoia) cancellando in un sol colpo 2000 anni di storia.
San Giovanni in conca resta pesantemente mutilata, avendo salva solamente la parte absidale a cui viene applicata la facciata romanica, traslata di qualche decina metri più indietro e inclinata ai gusti della nuova strada e della nuova estetica, stridenti con l’orientamento originale della chiesa.

Il suo campanile, ormai distaccato, svetta solitario al centro della nuova piazza; non condividerà il destino della facciata. La piazza dunque cambia improvvisamente volto: spariscono anche gli ingombri un tempo residenza viscontea, smussando così l’accesso al corso, sparisce parte del vicolo dei Marchesi di Caravaggio, che lì abitavano nell’edificio già proprietà Sforza, sacrificato anch’esso.

Nel 1916 viene inaugurato il monumento equestre a Giuseppe Missori, il cui cavallo china la testa, stancamente, forse immaginando i disastri che verranno attorno a lui, privato pure di conforto della chiesa da tempo ormai sconsacrata, derubata ed umiliata alle più diverse funzioni ( tra cui quella d’ officina) prima di esser venduta per 50.000 lire alla comunità valdese.

La piazza conservava lo sfondo del liceo Beccaria, unico edificio rimasto al suo posto, quando venne prolungato fin qui il corso San Celso (oggi corso Italia) che portò nuova forma, nuovo traffico e nuovi edifici, in particolare quello smussato che separa i due corsi: l’antica piazza è definitivamente decaduta a rango di slargo.

Il ventennio fascista porterà il palazzo dell’INPS, ma, come sappiamo, gli eventi precipitano ed il 1943 farà, mai più letterale, piazza pulita. I guasti della guerra sono ingenti, affatto irrecuperabili, ma l’occasione è ghiotta. Il progetto di piazza Diaz, i ruderi del Bottunuto e la sete di denaro sono terreno fertile per la speculazione.

Lungo l’asse di via Larga spariscono il Verziere, piazza Fontana, la stessa via Larga viene sconvolta, azzerato il Bottonuto ed aperta via Albricci che trafigge il cuore di piazza Missori.
San Giovanni in Conca non si vede riconosciuta il suo valore storico-artistico così, nel 1949, dopo aver salvato quel poco di affreschi che restavano, partono i cantieri di abbattimento, per non fermarsi più. Insieme alla chiesa vengono atterrati tutti gli edifici che con lei disegnavano quel lato della piazza, lasciando spazio alle brutture che tanto rattristano la cavalcatura del buon Missori, sconcertato testimone di cotanta ignoranza.

La comunità valdese, sfrattata, smonta la facciata per ricomporla, depurata dagli interventi ottocenteschi, in via Francesco Sforza, dove si trova ancora oggi, salva.
Un ripensamento dell’ ultim’ora è padre di quel triste muricciolo ridotto a spartitraffico nel mezzo di via Albricci. Altro non è che l’ unico avanzo visibile della storica chiesa, porzione absidale, in parte risparmiata ed in parte ricomposta a monumento alla vergogna.

Il tutto sotto lo sguardo incredulo di Missori il quale, colto nel momento di stupore, sembra arrestare il cavallo esclamando: ” Diamine! Ma che accade qui?”.
Lontano dagli sguardi indiscreti, si è mantenuta la cripta, proprio sotto gli avanzi, splendido esempio di romanico lombardo ed ultima testimone di una Storia secolare, lo scrigno aperto che ci ha permesso il miracolo di oggi.

Salutiamo i volontari del Touring Club, un bel respiro, chiudiamo lo scrigno alle nostre spalle e ci guardiamo attorno: è ancora tutto così anonimo?

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